Di iene, sciacalli e giornalismo


Di Alice Porta

Il giornalismo d’assalto è sempre esistito. Quello che potremmo definire il cronista d’inchiesta o investigativo: che rimesta nel marcio là dove nessuno ci vuole rimestare. Per quanto mi riguarda è l’unico vero giornalismo e lo dico chiaramente: va protetto.
Ora che siamo tutti (iper)connessi bisogna chiedersi quale senso abbia “la notizia”. I report asettici sulla cronaca nera non servono più, basta cliccare sull’Ansa per sapere quanta gente è morta e dove; allo stesso modo siamo pieni di opinionisti, io per prima, che vanno bene per riflettere, se sono in grado di porre le domande giuste, ma su Vasi di Pandora che qualcun altro ha già scoperchiato: il cronista d’assalto, appunto.

Dire oggi che i giornalisti non devono occuparsi di  <certe questioni > è – scusatemi – una sonora cazzata. Ai giornalisti investigativi si deve buona parte del marcio che è stato tirato fuori, al di là dei complotti della domenica, perché del serio e anche molto c’è stato nella storia del giornalismo. Avete presente Il Caso Spotlight? C’è un ottimo film del 2015, ve lo consiglio. Un tot di giornalisti del The Boston Globe hanno raccolto le testimonianze di famiglie i cui figli erano stati stuprati dai preti. Da lì un effetto domino che ha fatto crollare castelli di carte e numerose teste sante che ancora oggi ha effetti nell’universo monacale. Qualche giorno fa sotto un mio post su Emanuela Orlandi mi è stato fatto notare che molto è stato fatto dalle inchieste TV e di carta, piuttosto che dalle autorità preposte e dai documentaristi pagati da colossi dell’intrattenimento. E che dire di Wikileaks? Il suo fondatore, Julian Assange, è un giornalista.
Il giornalismo nasce dove lo Stato non arriva, dove il potere copre i fatti o li distorce. Le famiglie dei bimbi violati dai preti a Boston si sono rivolti ai giornalisti perché sapevano che nessun altro li avrebbe ascoltati. Non la polizia, non il sindaco, perché nessuno si mette contro la Chiesa. Nessuno ha una voce così forte. Ti serve un megafono. Il giornalista è il tuo megafono. Il giornalismo è La Voce, una voce dura e impietosa talvolta, ma corretta nei fatti e nei modi. Il giornalismo risponde al bisogno di sapere le cose e di comunicarle anche agli altri con l’unico mezzo che dura nel tempo: la scrittura. E lo fa noncurante delle conseguenze, che siano denunce, minacce e talvolta persino la morte (nel 2021 ben 47 giornalisti sono stati uccisi a causa delle loro inchieste).

C’è una differenza però tra giornalismo e sensazionalismo. Così come c’è una differenza tra giustizia e giustizialismo. Ed è in questa zona grigia che si incuneano programmi televisivi di dubbio gusto e ancor più incerta utilità. Perché a fare il giornalista si impara: studiando e lavorando con altri giornalisti; esiste un ordine dei giornalisti che vigila, in teoria, sull’operato dei suoi iscritti. Il giornalista veniva pagato il giusto, senza dover ricorrere all’audience e al click: libero così di lavorare per bene e davvero. Ma nel mondo della comunicazione di oggi si sono persi questi parametri di controllo: è pieno di autori senza scrupoli che dovendo campare sulla visibilità, sulla pubblicità, non controllano le fonti, scrivono titoli ingannatori, spacciano fake news accattivanti come vere e dopo – soltanto dopo – scrivono una errata corrige che però non leggerà mai nessuno. Intanto il danno è fatto. Spesso e volentieri i giornalisti sono orientati politicamente e la puzza di partito, quale che sia, si sente lontano un miglio. Il giornalista può e deve avere un’opinione, bene anche che traspaia, ma che sia sua e non fiato prestato a qualcuno dietro di lui. Da qui la sfiducia: le vittime non si rivolgono più ai giornalisti ma “vai alle Iene”, “chiama Striscia”. Colossi della Tv che paiono liberi, indipendenti ma è un inganno: campano della pubblicità che riescono ad inserire durante il programma. Più gente vede e più imprese pagano per pubblicizzare prodotti. Sono i più servi di tutti, anche se non hanno partito. E meglio di chiunque altro sanno che la gente vuole vedere il sangue, come nelle arene tra leoni e gladiatori dell’antica Roma. Vogliono l’imbarazzo, i dettagli pruriginosi, la violenza vera e soprattutto la gogna. Perché dopo la libertà giornalistica (l’Italia sta al 58esimo posto nel mondo per libertà di stampa), gli italiani sentono un difetto di Stato intorno alla giustizia. Un po’ perché non sanno cosa sia la giustizia, un po’ perché i processi sono lenti e farraginosi, le pene poco certe, talvolta insufficienti e su molti atti umani disgustosi cala il silenzio per colpa di correnti parlamentari in contrasto tra loro che rendono immobile il diritto, vecchia la legge. Da qui il bisogno di giustizialismo su cui certi programmi campano: la caccia al cattivo fino alle più estreme conseguenze, passando anche per eroi. “Tanto in prigione non ci va più nessuno, almeno qualcuno fa qualcosa” si sente dire.

 

Diciamolo chiaro. Un ragazzo che si uccide perché una donna, che non ha mai visto ma di cui si è innamorato, scompare nel niente non è una notizia, se non un report di cronaca nera, volendo anche solo locale. Il fatto di scoprire che dietro questa donna c’era invece un uomo di 64 anni con probabili problemi di salute mentale non è una notizia. E’ l’incontro di due solitudini che potrebbe andare bene per una riflessione più ampia sulle relazioni online fatta da qualche opinionista.

Il fatto però che certi programmi, senza titoli idonei e capacità, senza un controllo né supervisione, si occupino di inchiesta giornalistica senza avere giornalisti tra le loro fila; e poi quali siano i loro metodi; e ancora se siano corrette le loro fonti; in più se si muovano o meno dentro i parametri legali; verificare se ci sia una impalcatura sorretta più dal denaro che dalla bontà investigativa; controllare se si fermino al momento giusto lasciando lo spazio agli inquirenti e  soprattutto quante vittime e vite distrutte lasciano dietro i loro “servizi giornalistici”, per avere un computo vero della loro utilità, beh, questa sarebbe la notizia.

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