di Alice Porta
A me gli inizi piacciono, sarà perché mi riescono bene. Me la cavo anche discretamente con le conclusioni delle cose, ci metto un pelo più tempo però non sono male. E’ quello che sta in mezzo, che è ambiguo, che per me è un gran puttanaio, soprattutto se è da correggere in corsa. Mi fa fatica.
Perciò so che stabilire dei buoni propositi “di Stato” per il 2020 non ha senso ed è sfibrante: le jeux sont fait e la società è da raddrizzare, correndo. Però credo che si possa usare la scenografia di Capodanno per pensare a cosa serve in questa Italia dell’anno che varrà, perché ad oggi siamo uno Stato pieno di contraddizioni, di ambiguità dolorose. Dal punto da cui osservo io il panorama non è un granché. Lo so che non è una gara ma mi sia concesso di affermare che come donna, atea, non-madre, sui 30 anni e appartenente al ceto medio ciò su cui si affaccia la mia finestra di cittadina è un po’ desolante.
Le donne hanno bisogno di lavoro. Un lavoro che sia quanto più vicino alle loro aspirazioni, pagato giusto, meritocratico, che non preveda assurde abnegazioni, rinunce e volontariati malcelati. Il lavoro è un nostro diritto-dovere: sta scritto là, nel primo articolo della Costituzione; serve a rendere omogenea la società e ad alzare il Pil. Inoltre ci rende autonome e garantisce la nostra autodeterminazione. Eppure solo 48% delle donne ha un impiego, contro il 67% degli uomini. Laddove impiegate, le donne guadagnano in media il 10% in meno degli uomini.
Le donne hanno bisogno di genitorialità. E qui bisogna impegnarsi un po’ tutti. Basta con la santificazione della maternità, che parte innanzitutto da noi e poi ci ritorna indietro come un boomerang diventando la nostra prima funzione e limitazione. Essere madri non è un obbligo e non qualifica la donna; però laddove c’è la genitorialità, essa deve essere condivisa: congedi parentali, orari flessibili, smart work, asili nido statali o aziendali, possibilità di assumere legalmente con facilità aiuto domestico. Invece la retorica auto-inflitta della donna realizzata solo se madre, sacrificata sull’altare domestico e che si sobbarca il 71% delle fatiche in casa (e nella cura dei figli) è un piatto in tavola di tutti i santi giorni.
Le donne hanno bisogno di libertà. Dobbiamo essere libere di scegliere legalmente e culturalmente del nostro corpo e della nostra sessualità. Questo aspetto abbraccia il diritto legale all’interruzione di gravidanza, un maggiore accesso agli anticoncezionali e all’educazione sessuale e anche il sostegno culturale: la figura della donna libera e autodeterminata sessualmente come facile, poco di buono, di mestiere deve sparire. E qui occorre una dose massiccia di autocritica perché spesso, come si dice, siamo le peggiori nemiche di noi stesse: un campo di battaglia in cui si schierano donne pronte ad insultarsi per l’aspetto fisico e per le scelte personali; senza contare l’omofobia e la transfobia che serpeggia in diversi collettivi femminili.
Le donne hanno bisogno di tempo. Tempo per se stesse, per arricchire la propria cultura, per fare sport, per dedicarsi agli hobby o alle arti, per stare con la famiglia e con gli amici. Tutto questo contribuisce a creare una persona stabile e serena, quindi ne guadagneremmo tutti. Invece le donne hanno in media tre ore di tempo libero in meno al giorno rispetto agli uomini.
Potrei dire adesso che le donne hanno bisogno di protezione ma i dati sulla violenza sono alla portata di tutti: una donna ogni 15 minuti viene aggredita fisicamente o verbalmente, la maggior parte delle volte in casa, e i centri antiviolenza sono insufficienti e riescono a salvare appena la metà delle donne che vi si rivolgono. Io però non credo che sia una questione di armarsi, io credo che sia un problema culturale, sociale, che riguarda la percezione della donna ma soprattutto della persona nella sua interezza, perché le limitazioni e la violenza sono concetti assoluti, senza distinzione di sesso. A costo di essere impopolare dirò che le donne hanno bisogno degli uomini ma non come compagni o amanti o cavalieri, ne hanno bisogno come cittadini perché in questo Stato ci viviamo tutti. Anche gli uomini devono lottare per il cambiamento e, sì, hanno i loro bei diritti mangiati e la loro dose di violenza. Modi e numeri diversi certo, ma proprio noi dovremmo sapere che la violenza e la discriminazione non sono mai giuste e che una guerra tra i sessi, in un sistema circolare di vittime che diventano carnefici e così via, non giova a nessuno.
Abbiamo bisogno di unità, di partecipazione, di collettività perché i problemi di uno sono i problemi di tutti, impattano su tutti, rendendoci meno ricchi sotto molti aspetti. Occorre che il genere smetta di essere un valore oltre che una discriminante: la supponenza femminile e la virilità machista sono passate di moda.
E poi come l’operaio Mario diceva nel film Berlinguer ti voglio bene: “per me le donne sono òmini anche loro.”