Il vecchietto dove lo metto?


di Alice Porta

Uno dei miei maggiori pregi è la speranza: credo sempre che un evento della vita possa portare ad una riflessione che poi conduca ad un cambiamento, in meglio. E così quando il lockdown rese visibili tutte le storture e le inadeguatezze della società ho pensato che davvero fosse la buona occasione in cui avremmo riflettuto su un sistema economico fragile, un mondo del lavoro lento, sul nostro atteggiamento prepotente nei confronti dell’ambiente e soprattutto su quanto arrancassero quelle istituzioni dello Stato che invece io considero primarie e che dovrebbero funzionare come una macchina ben oliata: sanità, scuola e stato sociale. E’ venuto fuori che abbiamo riflettuto ma male.

Stamani mi è capitato di leggere un servizio belga che un giornalista italiano ha tradotto e applicato al nostro Paese: si sosteneva che le RSA – banalmente le case di riposo – abbiano dimostrato di essere oltre che i peggiori focolai di malattie anche totalmente inadeguate a gestire l’autunno della vita. Gli ospizi sarebbero costosi per lo Stato, situati in edifici fatiscenti e vi si applicherebbero cure lesive della dignità e della libertà della persona, oltre che essere la fonte principale della segregazione generazionale. Insomma l’ottavo cerchio e la quarta bolgia danteschi non sarebbero casa dei maghi e degli indovini ma il luogo dove ci stanno gli ospizi: raffigurati come prigioni in cui lasciamo i nostri vecchi e buttiamo via la chiave. Questa non è la prima invettiva, un po’ vecchio stile, che leggo in merito alle case di riposo e non solo: c’è chi estende queste brutali conclusioni anche agli asili nido, ai giardini di infanzia e infine alle comunità e ai centri diurni per disabili.
La soluzione ottimale sarebbe, secondo questi fini pensatori, le cure a casa con la famiglia o quando proprio è impossibile (situazioni gravi e ovviamente cure mediche) allora in cliniche dal numero ridotto di pazienti e zero costi per lo Stato, in sostanza centri privati.

Fermo restando che la cura dei famigliari fragili è una scelta intima e personalissima, unita al fatto che suona un po’ semplicistico applicare un’analisi svolta in Belgio al nostro Paese, ciò che mi interessa sono le considerazioni a margine di tutto questo ragionamento: chi si dovrebbe occupare dei cari ammalati lasciati a casa? Le donne, esatto.
La risposta non è detta a voce alta, nemmeno suggerita, ma suona ovvia in una società come la nostra dove la cura e l’accudimento sono ancora visti come capacità, impegni, tutti al femminile; pregiudizio sostenuto anche dalla differenze degli stipendi tra i generi: il lavoro della donne vale meno, danno il massimo a casa e così se c’è bisogno di loro tra le mura domestiche è chiaro che debbano rinunciare per prendere le redini del focolare. Affermare che certi istituti indispensabili vadano chiusi è pericoloso e lesivo di tutta una serie di conquiste per la parità tra i generi faticosamente raggiunte e ancora inferiori al necessario.
Questo se non si vuole toccare il vago suggerimento di rivolgersi ad imprese private: qui preferisco non spingermi oltre perché riguarda la visione che ognuno di noi ha dello Stato; laddove per me è l’unico che dovrebbe essere depositario della cura dei suoi cittadini, soprattutto i più fragili, senza scaricarli sulle famiglie e delegare ad imprese private.

Se davvero le case di riposo, le scuole a tutti i livelli, le comunità di sostegno ai disabili sono inadeguati allora potenziamoli: rendiamoli luoghi di sollievo, apprendimento, di accompagnamento e crescita in ogni fase della vita, anche dell’ultima. Arriviamo ad una vera parità lavorativa e ad una concezione del lavoro che sia incentrato meno sulla produzione e più a misura di persona: in modo che ciascuno possa mantenere e coltivare la propria indipendenza economica e soddisfazione personale e avere anche il tempo di qualità che serve per prendersi cura di sé e della propria famiglia.

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